Per chi ha confidenza col lavoro di Amélie Nothomb, leggendo "Biografia della fame" risuoneranno familiari le pagine di " Né di Eva né di Adamo", "Metafisica dei tubi", "Stupore e tremori" e "Sabotaggio d'amore", che a loro volta danno voce all'autobiografia dell'autrice.
Rispetto a questi ultimi citati, viene da chiedersi cosa sia realmente "Biografia della fame".
Ad una lettura vorace e bulimica (termini adatti al contesto) consumata in due giorni, sembrerebbe in apparenza una resume dei numerosi spostamenti a cui fin da piccolissima Amélie Nothomb, insieme all'amatissima sorella maggiore Juliette, fu costretta a causa del padre diplomatico.
Giappone, Cina, New York, Bangladesh, Birmania. L'infanzia, l'adolescenza, la prima età adulta. I giochi d'infanzia, le turbe, le amicizie, le infatuazioni, le ambizioni, il rapporto col corpo, il futuro da scrittrice. E di come quei luoghi e le persone che vi abitavano abbiano plasmato in lei appetiti di diversa natura.
Del suo rapporto ambiguo con la fame, fame del mondo e della vita stessa. Fame di affetto e di amore.
E di come questa fame sembri essere stata indispensabile a intessere un rapporto fondamentale con l'atto della scrittura:
"La scrittura era innanzitutto un atto fisico: c'erano ostacoli da superare per tirar fuori qualcosa da me. Questo sforzo costituì una specie di tessuto che divenne il mio corpo."
Le sfuggenti dissertazioni dell'autrice nelle prime pagine del libro riescono a fatica a far breccia nell'attenzione di chi legge, rallentando il ritmo della narrazione, finché si trasforma in una narrazione autobiografica a tutti gli effetti, dai tratti più chiari, delineati, concentrandosi sugli eventi, sugli spazi, sulle azioni dei personaggi e sui loro diretti effetti sulla personalità della giovane protagonista. Solo allora la parole riescono davvero ad agganciarci.
Quello che sembra essere un incipit innocuo, con personaggi e circostanze comuni e narrativamente poco avvincenti, in poco tempo (e cogliendo chi legge del tutto alla sprovvista) si rivela invece per quello che in realtà è: uno scenario dalle tinte inquietanti, oscure, quasi claustrofobiche, dove vengono messi in scena veri e propri sequestri di persona mascherati dietro sorrisi sardonici e falsi, progetti malefici e foschi.
La protagonista, una giovane scrittrice di Parigi, viene così condotta in una spirale di eventi grotteschi, e verso un finale assolutamente inaspettato, che ricorda quelli dei romanzi di Amélie Nothomb.
Non è forse un caso che Stephanie Hochet (autrice de "Il testamento dell'uro) apparve in un suo libro sotto lo pseudonimo di Petronille Fanto, nell'omonimo romanzo "Petronille".
Uno stile ed un lessico semplici, senza fronzoli, che vanno dritti al punto.
Una voce onesta, senza censure sull'esperienza poliedrica della maternità, la cui narrazione è stata sempre (o comunque spesso) edulcorata, imbellettata e talvolta traviata, tenendo pudicamente (e spesso moralmente) taciute molte verità ritenute talvolta socialmente scomode, inaccettabili o addirittura esecrabili.
Niente di tutto questo: la voce dell'autrice, e così della protagonista, non ci nasconde nulla. Lascia spazio a tutto, sottolineando quale inevitabile contraddizione sia la maternità e l'essere donna a questo mondo.
Creazione e distruzione. Odio e amore. Repulsione e adorazione. Orrore e bellezza.
In questo processo, che è al tempo stesso evoluzione e regressione, Abécassis lascia spazio a tutto: la gravidanza, la percezione di un corpo che cambia inesorabilmente e non sarà mai più uguale a prima, lo sguardo della gente, il parto, l'episiotomia, il sesso, lo sconvolgimento psicofisico.
Ogni aspetto di questa esperienza ha il suo spazio narrativo, seguendo un approccio al tempo stesso umoristico e drammatico.
"Mentre è sdraiato, dopo essere stato aperto e ricucito dalla gola alla pancia e lentamente esce dall'anestesia, li vede all'improvviso davanti a lui. Alcune persone di varia età gli stanno davanti e lo osservano. Strano come siano riusciti ad entrare, dato che non è ammesso l'ingresso nei reparti di chirurgia intensiva.
Vicino alla finestra c'è un bambino di sette-otto anni, in pantaloncini corti, un ginocchio sbucciato e peletti biondi sulle braccia esili. L'uomo di vent'anni è alto e bello. Vicino a lui ce n'è uno di quaranta, che comincia a incanutire, specie sul lato sinistro, ma fa ancora una gran bella figura. E infine un uomo di sessant'anni, dal volto giallastro, appare dimagrito e ha delle borse sotto gli occhi, deve assolutamente andare a farsi visitare.
- Chi siete voi? - chiede il paziente, anche se intuisce la risposta.
- Tutti i tuoi corpi - risponde il più anziano. - Non ci hai riconosciuto?
Si osservano in silenzio per circa un minuto.
- Su, andatevene, adesso viene l'infermiere capo - dice loro a bassa voce, anche se vorrebbe che rimanessero ancora un po'. E' difficile che si vedano ancora.
Loro si guardano, gli fanno un cenno appena percepibile di addio e cominciano a uscire.
Il bambino rimane per ultimo."
"Tutti i nostri corpi" è il titolo di questa raccolta di racconti brevi, talvolta brevissimi. Fermoimmagine, istantanee, sequenze breviloquenti, talvolta delle semplici riflessioni che accomunano l'intero genere umano.
Ma fa anche da titolo alle parole sopracitate. Uno scenario in parte magico in parte onirico, quasi kafkiano.
Anche se verso la fine perde un po' di smalto, gran parte della raccolta mantiene suggestioni, toni e ritmi incalzanti, brillanti, talvolta umoristici, talvolta drammatici, come luci che s'accendono all'improvviso nel buio e lasciano una traccia scura e fulminea negli occhi.
"Conta a sinistra e conta a destra
ovunque guardi c'è una finestra
finestre grandi, cieli quadrati
piccoli mondi ben ritagliati
devi ascoltarle certe finestre
sono strumenti di grandi orchestre
c'è da imparare dalle finestre
certe t'insegnano e sono maestre
quella era chiusa, oggi è un po' aperta
ma che scoperta."
"Un tempo, la costa della NuBaCa era stata un luogo meraviglioso per gli esseri umani. Adesso emanava una bellezza ancora maggiore, più antica e atroce, era un mondo a sé stante, splendido e inospitale. La luna era l'unica luce naturale ancora sopportabile".
Intenso, viscerale. Un ritratto atipico e lontano da quello idilliaco generalmente attribuito alle sirene. Il binomio bellezza e ferocia è ancora vivo e non distante dalle descrizioni fornite dalla mitologia, ma in questo breve romanzo distopico le regine del mare sono descritte come vere e proprie bestie da macello, spesso esibite come animali da zoo. Imprigionate, mutilate, seviziate, uccise e divorate.
Una storia impietosa, senza carità. Seppur ambientato in un luogo e in un tempo imprecisati nel futuro, questo mondo pare in tutto e per tutto avere i prerequisiti giusti per descrivere un futuro ormai prossimo, che forse si sta già realizzando nel presente.
Un sole nocivo, al quale non ci si può più esporre senza correre il rischio di contrarre un tumore alla pelle e morire in poco tempo, oltre a provocare alti rischi di contagio.
E in questo scenario desolante e di generale indolenza, le sirene, creature meravigliose e brutali, vengono infine scoperte dal genere umano, strappate via dal loro ambiente naturale, e letteralmente rinchiuse in vasche per essere allevate e sostanzialmente macellate. Un campanello familiare sembra risuonare.
Il procedimento di macellazione delle sirene (descritto in modo tecnico e imperturbabile) e il mercato che ruota attorno alla vendita della loro carne è appunto avido e impietoso. La loro natura, stupenda e feroce, viene così manipolata, rendendo queste creature (solo in parte vagamente umane) improvvisamente mansuete, inoffensive e passive a qualunque cosa subiscano.
"Il corpo della sirena era scivoloso per l'umore, il sapore era quello del mare. Il vecchio aveva affondato i denti nella spalla della sirena e le aveva morso il seno, aveva leccato il sangue. Poi, a fatica, e aiutandosi con un coltello, l'aveva aperta e penetrata mentre le divorava la carne e si era svuotata dentro di lei un attimo dopo, sussultando".
Un altro episodio simile si presenta quando Samuel, il protagonista, ricorda Sadako, la donna amata e perduta a causa del contagio: "Quando Sadako era morta, Samuel aveva pensato di divorare il corpo, prima che lo cremassero. Mangiare la sua carne voleva dire averla dentro di sé per sempre, o almeno fino alla fine del pasto e del ciclo del cibo nel suo corpo".
In questa storia sembrano esistere due tipi di fame: una fame alimentata dal desiderio sessuale (dove però l'amore non compare mai, e il sesso diventa un mero processo macchinoso di espletamento dei propri umori), e poi una fame stimolata dallo stomaco.
Talvolta però pare difficile trovare una effettiva differenza fra le due, cosicché la voce narrante descrive un generale appetito che non appaga mai davvero. È bulimico, e forse per questo ancora più stomachevole, ributtante, poiché votata ad un mero consumo, ad un uso delle cose e delle persone che alimenta un circolo vizioso inarrestabile, che non può condurre ad altro se non alla distruzione dei suoi stessi artefici, prima o dopo.
Nutrirsi e accoppiarsi diventano due atti crudi, gelidi, macchinosi, intrisi di cupezza, orrore e dolore.
Pur trattandosi di un romanzo contemporaneo per ragazzə, sembrano esserci dei richiami a certe dinamiche narrative tipicamente dickensiane oppure più sottilmente a quelle narrate ne "L'uomo che ride" di Victor Hugo.
Una polarizzazione netta tra aristocrazia e povera gente, nobili e popolani.
Tre orfani costretti a vivere di espedienti, che tuttavia riescono a sperare per il loro futuro e a conservare un'indole all'innocenza, però nascosta sotto strati di sudiciume e stracci.
I tre protagonisti sono: Mezzanottecinque (così chiamato a causa dei dodici puntini tatuati a forma di quadrante di orologio e delle due lancette puntate a mezzanotte e cinque sull'avambraccio da quando è nato); la sorellina Bretella (appassionata di bottoni) ed Emil (cantante, giocoliere di rime e domatore di topi, convinto di essere il figlio del ricco barone di Moravia, del quale sta andando alla ricerca).
In seguito alla sparizione di una preziosa collana di diamanti appartenente alla principessa Daniella Danilova, i tre si ritrovano ad avere a che fare con nobili avari, violenti, subdoli e prepotenti.
Un'aristocrazia la cui malvagità resta impunita, e che continua ad abbattersi sui miserabili anche e soprattutto quando, attraverso la voce di tre poveri orfani, dicono la verità.
Tuttavia, si può certo dire che, contrariamente alle sorti di certi personaggi hugoniani, Malika Ferdjoukh (l'autrice) sfrutta perfettamente l'espediente narrativo del deus ex machina, tipicamente dickensiano, in un finale dolce amaro che fa ancora sperare nel bene dell'umanità, quello invisibile della gente comune.
"La capra non aveva ancora capito che il suo compagno era un lupo. (...) Anche il lupo non aveva capito che il suo compagno era una capra."
Il buio della notte. Un improvviso temporale. Una capanna. Una capra e un lupo.
Lontani richiami alla figura di Psiche, che amava ad occhi chiusi, al buio, senza vedere chi fosse l'amato. Dell'amato udiva solo la voce, potendone immaginare l'aspetto soltanto al tatto.
Anche in questa storia, sia il lupo che la capra sono letteralmente all'oscuro di chi faccia loro reciproca compagnia nella capanna.
Si affidano alle parole, non ai volti.
Ascoltano la voce dell'altro e, lontani dal poter immaginare, dal vedere e dal sapere chi possa essere l'altro, riescono lo stesso a conoscersi, avvicinarsi. Ed è forse solo in questo modo che superano le loro barriere e riconoscono le loro affinità.
Come sottolinea la premessa, "In una notte di tempesta" ha vinto numerosi premi, tra cui, in Italia, il Premio Nazionale Libro per l'Ambiente 1999 conferito da Legambiente. E' stato scelto come testo di studio per le scuole elementari dal Ministero della Pubblica Istruzione Giapponese e in Giappone è uno dei libri più venduti degli ultimi anni.
"Tokyo, una piccola libreria nel quartiere delle librerie. Un posto pieno di semplici storie minuscole".
Il romanzo inizia con un breve riepilogo narrativo di quanto è successo nel libro precedente, "I miei giorni alla libreria Morisaki": forse per scrupolo dell'autore, nell'ipotesi che non tutte le lettrici e i lettori siano al corrente che si tratti di un secondo atto di un libro precedente, pubblicato nel 2022.
Questa operazione permette così una (re)visione d'insieme di un ciclo narrativo più ampio. Allo stesso tempo però, per chi invece è reduce dal primo libro, il ritmo viene rallentato, ragion per cui la storia sembra riuscire a prendere un po' di slancio solo a metà del libro.
Capitolo forse meno riuscito rispetto al precedente, e ancora un volta con dialoghi non particolarmente brillanti e memorabili, anzi, talvolta la copiatura di pure chiacchiere di circostanza o di usuali formule intercalari del parlato, che certo rallentano ulteriormente il ritmo della narrazione.
Ma forse l'obiettivo non era raggiungere ambiziose vette letterarie, ma limitarsi a raccontare, con formule e parole semplici, una storia "minuscola" e semplice, e con un messaggio di fondo dopotutto condivisibile.
Se si ignora per un breve momento l'approccio critico-letterario al romanzo, concentrandosi piuttosto sui personaggi e sulle storie costruite attorno e su di loro, si direbbe ugualmente una lettura godibile nell'arco di tempo che la storia si inizia e si finisce di leggere, ma con un riverbero comunque troppo debole.
Le storie non sono così diverse dalle ricette.
In entrambi i casi servono degli ingredienti.
E poi qualcosa per insaporirli, cuocerli, amalgamarli, decorarli e impiattarli.
A volte si ottiene una pietanza dolce, a volte salata, a volte piccante, a volte amara.
A volte un sapore ritrovato, a volte un gusto inaspettato.
Il cibo, come le storie, a volte piacciono, a volte no.
A volte ci appagano, a volte ci deludono.
Ma le storie, come il cibo, ci saranno sempre indispensabili,
uniti a vita come una coppia di inseparabili.
"Ammetto che non è una passeggiata:
l'audacia non è dote improvvisata.
Un po' si cade, un po' si vacilla.
Tu pensa solo, se un adulto strilla:
- questo mi fa davvero spazientire -
che solo in mano a pochi è l'avvenire.
Curiosi furbi, trasgressivi che somigliano (davvero) molto a...te!
Osserva il mondo con occhi di spia,
continua a ritrovarci la magia.
Contesta le credenze dei sistemi!
Sii irriverente! Spazza via gli schemi!
Cresci in larghezza o altezza, scaltro o fesso,
piccino o grande, tondo o retroflesso.
Indossa stracci o regale vestiario,
ma...non crescere mai, se non al contrario!"
(Roald Dahl)
Un elogio alla stravaganza, a chi rischia, sperimenta, guarda e vede oltre.
Bambini sì, ma grandi soprattutto.
"E' come un piccolo fuoco che mi cresce dentro, in mezzo alla pancia, alla bocca dello stomaco, io la chiamo la mia voglia di dissipazione. (...) C'è una voglia di fare male a quelli che amo e mi amano, non tutti. Qualcuno. Forse tutti. Non lo so più. Non sono lucida, non per forza lucida. Le mie occasioni di tragedia".
"Il mio linguaggio è fuori controllo. Non riesco a fermarmi. Non parlo più con le persone, parlo da sola, ma mai nel vuoto è un flusso senza fine. Non so da dove venga tutto questo fluire, queste affermazioni".
Uno stile telegrafico. Minimalista, organizzato in paragrafi.
Una continua altalena tra episodi del presente, ricordi del passato, visioni oniriche e fantasmagorie a occhi aperti.
Le pagine scritte da Clémentine Haenel non descrivono il periodo successivo all'abbandono così come tendono a fare certi prodotti commerciali: pigiama, junk food, visione di film sdolcinati e lacrime a profusione.
No, qui ci sono l'istinto omicida: verso gli estranei, ma anche verso persone amate, e poi bambini, animali e le madri degli uomini con cui è stata ("Gli uomini che mi incontrano farebbero meglio a stare attenti alle loro madri, nei miei sogni mi piace vederle morire").
Insieme a quello anche il costante istinto suicida.
Un abbandono totale al logorio dovuto ad alcool, droga, farmaci, malnutrizione, denutrizione, trascuratezza ("Aspetto che mi crescano i capelli. Che siano lunghi, dolorosi e pesanti, che le ciocche più rosse arrivino a infastidirmi i reni. Aspetto inzuppandoli di latte e uova crude e spremendoli dentro pellicole di plastica").
La protagonista inoltre, di cui non sappiamo il nome, sente la costante mancanza del sesso, del contatto col corpo di X., trentenne sposato e con figli, ma finisce col perdersi in un'infinita sequenza di rapporti occasionali apatici con degli estranei (definiti solo con la loro inziale, e talvolta nemmeno con quella).
Ripetute e frequenti sono le elencazioni di nomi di serial killer francesi e internazionali, e dei grotteschi e inquietanti dettagli dei loro delitti.
Un rovinoso viaggi di autodistruzione, misantropia e oblio, talvolta lucido, talvolta no.
"Ovunque mi fossi trovato, in compagnia di chiunque, il mio posto sarebbe stato quello in cui ero certo di non stare mentendo al mio cuore".
Takako si crede arrivata ad un punto di non ritorno, dopo una storia d'amore finita male con un collega di lavoro e le immediate dimissioni dal suo impiego, finché non viene letteralmente catapultata nel luogo per lei più impensabile: la libreria dello zio Satoru, nel quartiere di Jinbocho, a Tokyo, celebre per le sue numerose librerie.
Un ritorno al passato, ad una lei stessa bambina del tutto diversa dalla se stessa del presente, ma non perduta.
All'inizio della storia, emerge che Takako non è una fervida lettrice. Per questo motivo non pare del tutto verosimile che basti lo spazio di una notte d'insonnia alla libreria dello zio per trasformarsi all'improvviso in una divoratrice di pagine, dopo la lettura di un volume scelto a caso nell'appartamento soprastante la libreria.
O forse chissà, forse non è poi così inverosimile.
Gatti, Parigi, ladri d'arte e soprattutto tanto formaggio.
L'agente Baffo, un gatto investigatore dai mimetici occhi verdi, è costretto a rimandare le sue vacanze e a raggiungere Parigi per risolvere il mistero di un pregiatissimo e famoso quadro scomparso: la Monna Ricotta.
Un delizioso albo illustrato consigliato per qualunque età, ma in particolare per avvicinare i piccoli e le piccole lettrici al mondo dell'arte, con l'aggiunta di un pizzico di mistero e di intuito felino.
"If I told that I am a vampire, would something change? Would your feelings for me change? (...) It doesn't matter what I am. I'm your Priscilla, that's whats matters".
Quanto il sapere o meno la verità è di ostacolo nell'amare qualcunə?
63 pagine in inglese che raccontano di una storia d'amore semplice (e non di una "semplice storia d'amore"), così come le sue premesse.
Il suo potenziale si manifesta soprattutto nel finale, dove Milton lascia volutamente delle cose non dette, alcune d'importanza non irrilevante ai fini della narrazione, come se volesse dire a chi legge che non c'è un'interpretazione giusta o sbagliata, e che qualunque finale è ben accetto.
L'immaginazione di chi legge è dunque la chiave di ogni interpretazione.
Ecco perché in questo modo riesce facile immedesimarsi in Patrick, sedicenne americano giunto in Inghilterra con la madre divorziata, poco entusiasta di essere stato costretto a lasciare la sua vita a New York.
Tutte le sue domande a proposito di Priscilla, una sua compagna di scuola di cui si chiacchiera molto, sono in fondo anche quelle di chi legge.
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Biografia della fame - Amelie Nothomb
Per chi ha confidenza col lavoro di Amélie Nothomb, leggendo "Biografia della fame" risuoneranno familiari le pagine di " Né di Eva né di Adamo", "Metafisica dei tubi", "Stupore e tremori" e "Sabotaggio d'amore", che a loro volta danno voce all'autobiografia dell'autrice.
Rispetto a questi ultimi citati, viene da chiedersi cosa sia realmente "Biografia della fame".
Ad una lettura vorace e bulimica (termini adatti al contesto) consumata in due giorni, sembrerebbe in apparenza una resume dei numerosi spostamenti a cui fin da piccolissima Amélie Nothomb, insieme all'amatissima sorella maggiore Juliette, fu costretta a causa del padre diplomatico.
Giappone, Cina, New York, Bangladesh, Birmania. L'infanzia, l'adolescenza, la prima età adulta. I giochi d'infanzia, le turbe, le amicizie, le infatuazioni, le ambizioni, il rapporto col corpo, il futuro da scrittrice. E di come quei luoghi e le persone che vi abitavano abbiano plasmato in lei appetiti di diversa natura.
Del suo rapporto ambiguo con la fame, fame del mondo e della vita stessa. Fame di affetto e di amore.
E di come questa fame sembri essere stata indispensabile a intessere un rapporto fondamentale con l'atto della scrittura:
"La scrittura era innanzitutto un atto fisico: c'erano ostacoli da superare per tirar fuori qualcosa da me. Questo sforzo costituì una specie di tessuto che divenne il mio corpo."
Le sfuggenti dissertazioni dell'autrice nelle prime pagine del libro riescono a fatica a far breccia nell'attenzione di chi legge, rallentando il ritmo della narrazione, finché si trasforma in una narrazione autobiografica a tutti gli effetti, dai tratti più chiari, delineati, concentrandosi sugli eventi, sugli spazi, sulle azioni dei personaggi e sui loro diretti effetti sulla personalità della giovane protagonista. Solo allora la parole riescono davvero ad agganciarci.
Il testamento dell'uro - Stéphanie Hochet
Quello che sembra essere un incipit innocuo, con personaggi e circostanze comuni e narrativamente poco avvincenti, in poco tempo (e cogliendo chi legge del tutto alla sprovvista) si rivela invece per quello che in realtà è: uno scenario dalle tinte inquietanti, oscure, quasi claustrofobiche, dove vengono messi in scena veri e propri sequestri di persona mascherati dietro sorrisi sardonici e falsi, progetti malefici e foschi.
La protagonista, una giovane scrittrice di Parigi, viene così condotta in una spirale di eventi grotteschi, e verso un finale assolutamente inaspettato, che ricorda quelli dei romanzi di Amélie Nothomb.
Non è forse un caso che Stephanie Hochet (autrice de "Il testamento dell'uro) apparve in un suo libro sotto lo pseudonimo di Petronille Fanto, nell'omonimo romanzo "Petronille".
Lieto evento - Eliette Abécassis
Uno stile ed un lessico semplici, senza fronzoli, che vanno dritti al punto.
Una voce onesta, senza censure sull'esperienza poliedrica della maternità, la cui narrazione è stata sempre (o comunque spesso) edulcorata, imbellettata e talvolta traviata, tenendo pudicamente (e spesso moralmente) taciute molte verità ritenute talvolta socialmente scomode, inaccettabili o addirittura esecrabili.
Niente di tutto questo: la voce dell'autrice, e così della protagonista, non ci nasconde nulla. Lascia spazio a tutto, sottolineando quale inevitabile contraddizione sia la maternità e l'essere donna a questo mondo.
Creazione e distruzione. Odio e amore. Repulsione e adorazione. Orrore e bellezza.
In questo processo, che è al tempo stesso evoluzione e regressione, Abécassis lascia spazio a tutto: la gravidanza, la percezione di un corpo che cambia inesorabilmente e non sarà mai più uguale a prima, lo sguardo della gente, il parto, l'episiotomia, il sesso, lo sconvolgimento psicofisico.
Ogni aspetto di questa esperienza ha il suo spazio narrativo, seguendo un approccio al tempo stesso umoristico e drammatico.
Tutti i nostri corpi - Georgi Gospodinov
"Mentre è sdraiato, dopo essere stato aperto e ricucito dalla gola alla pancia e lentamente esce dall'anestesia, li vede all'improvviso davanti a lui. Alcune persone di varia età gli stanno davanti e lo osservano. Strano come siano riusciti ad entrare, dato che non è ammesso l'ingresso nei reparti di chirurgia intensiva.
Vicino alla finestra c'è un bambino di sette-otto anni, in pantaloncini corti, un ginocchio sbucciato e peletti biondi sulle braccia esili. L'uomo di vent'anni è alto e bello. Vicino a lui ce n'è uno di quaranta, che comincia a incanutire, specie sul lato sinistro, ma fa ancora una gran bella figura. E infine un uomo di sessant'anni, dal volto giallastro, appare dimagrito e ha delle borse sotto gli occhi, deve assolutamente andare a farsi visitare.
- Chi siete voi? - chiede il paziente, anche se intuisce la risposta.
- Tutti i tuoi corpi - risponde il più anziano. - Non ci hai riconosciuto?
Si osservano in silenzio per circa un minuto.
- Su, andatevene, adesso viene l'infermiere capo - dice loro a bassa voce, anche se vorrebbe che rimanessero ancora un po'. E' difficile che si vedano ancora.
Loro si guardano, gli fanno un cenno appena percepibile di addio e cominciano a uscire.
Il bambino rimane per ultimo."
"Tutti i nostri corpi" è il titolo di questa raccolta di racconti brevi, talvolta brevissimi. Fermoimmagine, istantanee, sequenze breviloquenti, talvolta delle semplici riflessioni che accomunano l'intero genere umano.
Ma fa anche da titolo alle parole sopracitate. Uno scenario in parte magico in parte onirico, quasi kafkiano.
Anche se verso la fine perde un po' di smalto, gran parte della raccolta mantiene suggestioni, toni e ritmi incalzanti, brillanti, talvolta umoristici, talvolta drammatici, come luci che s'accendono all'improvviso nel buio e lasciano una traccia scura e fulminea negli occhi.
Filastrocche in valigia - Sabrina Giarratana
Conta delle finestre
"Conta a sinistra e conta a destra
ovunque guardi c'è una finestra
finestre grandi, cieli quadrati
piccoli mondi ben ritagliati
devi ascoltarle certe finestre
sono strumenti di grandi orchestre
c'è da imparare dalle finestre
certe t'insegnano e sono maestre
quella era chiusa, oggi è un po' aperta
ma che scoperta."
(Sabrina Giarratana)
Sirene - Laura Pugno
"Un tempo, la costa della NuBaCa era stata un luogo meraviglioso per gli esseri umani. Adesso emanava una bellezza ancora maggiore, più antica e atroce, era un mondo a sé stante, splendido e inospitale. La luna era l'unica luce naturale ancora sopportabile".
Intenso, viscerale. Un ritratto atipico e lontano da quello idilliaco generalmente attribuito alle sirene. Il binomio bellezza e ferocia è ancora vivo e non distante dalle descrizioni fornite dalla mitologia, ma in questo breve romanzo distopico le regine del mare sono descritte come vere e proprie bestie da macello, spesso esibite come animali da zoo. Imprigionate, mutilate, seviziate, uccise e divorate.
Una storia impietosa, senza carità. Seppur ambientato in un luogo e in un tempo imprecisati nel futuro, questo mondo pare in tutto e per tutto avere i prerequisiti giusti per descrivere un futuro ormai prossimo, che forse si sta già realizzando nel presente.
Un sole nocivo, al quale non ci si può più esporre senza correre il rischio di contrarre un tumore alla pelle e morire in poco tempo, oltre a provocare alti rischi di contagio.
E in questo scenario desolante e di generale indolenza, le sirene, creature meravigliose e brutali, vengono infine scoperte dal genere umano, strappate via dal loro ambiente naturale, e letteralmente rinchiuse in vasche per essere allevate e sostanzialmente macellate. Un campanello familiare sembra risuonare.
Il procedimento di macellazione delle sirene (descritto in modo tecnico e imperturbabile) e il mercato che ruota attorno alla vendita della loro carne è appunto avido e impietoso. La loro natura, stupenda e feroce, viene così manipolata, rendendo queste creature (solo in parte vagamente umane) improvvisamente mansuete, inoffensive e passive a qualunque cosa subiscano.
"Il corpo della sirena era scivoloso per l'umore, il sapore era quello del mare. Il vecchio aveva affondato i denti nella spalla della sirena e le aveva morso il seno, aveva leccato il sangue. Poi, a fatica, e aiutandosi con un coltello, l'aveva aperta e penetrata mentre le divorava la carne e si era svuotata dentro di lei un attimo dopo, sussultando".
Un altro episodio simile si presenta quando Samuel, il protagonista, ricorda Sadako, la donna amata e perduta a causa del contagio: "Quando Sadako era morta, Samuel aveva pensato di divorare il corpo, prima che lo cremassero. Mangiare la sua carne voleva dire averla dentro di sé per sempre, o almeno fino alla fine del pasto e del ciclo del cibo nel suo corpo".
In questa storia sembrano esistere due tipi di fame: una fame alimentata dal desiderio sessuale (dove però l'amore non compare mai, e il sesso diventa un mero processo macchinoso di espletamento dei propri umori), e poi una fame stimolata dallo stomaco.
Talvolta però pare difficile trovare una effettiva differenza fra le due, cosicché la voce narrante descrive un generale appetito che non appaga mai davvero. È bulimico, e forse per questo ancora più stomachevole, ributtante, poiché votata ad un mero consumo, ad un uso delle cose e delle persone che alimenta un circolo vizioso inarrestabile, che non può condurre ad altro se non alla distruzione dei suoi stessi artefici, prima o dopo.
Nutrirsi e accoppiarsi diventano due atti crudi, gelidi, macchinosi, intrisi di cupezza, orrore e dolore.
Mezzanotte e cinque - Malika Ferdjoukh
Pur trattandosi di un romanzo contemporaneo per ragazzə, sembrano esserci dei richiami a certe dinamiche narrative tipicamente dickensiane oppure più sottilmente a quelle narrate ne "L'uomo che ride" di Victor Hugo.
Una polarizzazione netta tra aristocrazia e povera gente, nobili e popolani.
Tre orfani costretti a vivere di espedienti, che tuttavia riescono a sperare per il loro futuro e a conservare un'indole all'innocenza, però nascosta sotto strati di sudiciume e stracci.
I tre protagonisti sono: Mezzanottecinque (così chiamato a causa dei dodici puntini tatuati a forma di quadrante di orologio e delle due lancette puntate a mezzanotte e cinque sull'avambraccio da quando è nato); la sorellina Bretella (appassionata di bottoni) ed Emil (cantante, giocoliere di rime e domatore di topi, convinto di essere il figlio del ricco barone di Moravia, del quale sta andando alla ricerca).
In seguito alla sparizione di una preziosa collana di diamanti appartenente alla principessa Daniella Danilova, i tre si ritrovano ad avere a che fare con nobili avari, violenti, subdoli e prepotenti.
Un'aristocrazia la cui malvagità resta impunita, e che continua ad abbattersi sui miserabili anche e soprattutto quando, attraverso la voce di tre poveri orfani, dicono la verità.
Tuttavia, si può certo dire che, contrariamente alle sorti di certi personaggi hugoniani, Malika Ferdjoukh (l'autrice) sfrutta perfettamente l'espediente narrativo del deus ex machina, tipicamente dickensiano, in un finale dolce amaro che fa ancora sperare nel bene dell'umanità, quello invisibile della gente comune.
In una notte di temporale - Yuichi Kimura
"La capra non aveva ancora capito che il suo compagno era un lupo. (...) Anche il lupo non aveva capito che il suo compagno era una capra."
Il buio della notte. Un improvviso temporale. Una capanna. Una capra e un lupo.
Lontani richiami alla figura di Psiche, che amava ad occhi chiusi, al buio, senza vedere chi fosse l'amato. Dell'amato udiva solo la voce, potendone immaginare l'aspetto soltanto al tatto.
Anche in questa storia, sia il lupo che la capra sono letteralmente all'oscuro di chi faccia loro reciproca compagnia nella capanna.
Si affidano alle parole, non ai volti.
Ascoltano la voce dell'altro e, lontani dal poter immaginare, dal vedere e dal sapere chi possa essere l'altro, riescono lo stesso a conoscersi, avvicinarsi. Ed è forse solo in questo modo che superano le loro barriere e riconoscono le loro affinità.
Come sottolinea la premessa, "In una notte di tempesta" ha vinto numerosi premi, tra cui, in Italia, il Premio Nazionale Libro per l'Ambiente 1999 conferito da Legambiente. E' stato scelto come testo di studio per le scuole elementari dal Ministero della Pubblica Istruzione Giapponese e in Giappone è uno dei libri più venduti degli ultimi anni.
Una sera tra amici a Jinbōchō - Satoshi Yagisawa
"Tokyo, una piccola libreria nel quartiere delle librerie. Un posto pieno di semplici storie minuscole".
Il romanzo inizia con un breve riepilogo narrativo di quanto è successo nel libro precedente, "I miei giorni alla libreria Morisaki": forse per scrupolo dell'autore, nell'ipotesi che non tutte le lettrici e i lettori siano al corrente che si tratti di un secondo atto di un libro precedente, pubblicato nel 2022.
Questa operazione permette così una (re)visione d'insieme di un ciclo narrativo più ampio. Allo stesso tempo però, per chi invece è reduce dal primo libro, il ritmo viene rallentato, ragion per cui la storia sembra riuscire a prendere un po' di slancio solo a metà del libro.
Capitolo forse meno riuscito rispetto al precedente, e ancora un volta con dialoghi non particolarmente brillanti e memorabili, anzi, talvolta la copiatura di pure chiacchiere di circostanza o di usuali formule intercalari del parlato, che certo rallentano ulteriormente il ritmo della narrazione.
Ma forse l'obiettivo non era raggiungere ambiziose vette letterarie, ma limitarsi a raccontare, con formule e parole semplici, una storia "minuscola" e semplice, e con un messaggio di fondo dopotutto condivisibile.
Se si ignora per un breve momento l'approccio critico-letterario al romanzo, concentrandosi piuttosto sui personaggi e sulle storie costruite attorno e su di loro, si direbbe ugualmente una lettura godibile nell'arco di tempo che la storia si inizia e si finisce di leggere, ma con un riverbero comunque troppo debole.
Ricette per racconti a testa in giù - Bernard Friot
Le storie non sono così diverse dalle ricette.
In entrambi i casi servono degli ingredienti.
E poi qualcosa per insaporirli, cuocerli, amalgamarli, decorarli e impiattarli.
A volte si ottiene una pietanza dolce, a volte salata, a volte piccante, a volte amara.
A volte un sapore ritrovato, a volte un gusto inaspettato.
Il cibo, come le storie, a volte piacciono, a volte no.
A volte ci appagano, a volte ci deludono.
Ma le storie, come il cibo, ci saranno sempre indispensabili,
uniti a vita come una coppia di inseparabili.
Non crescere mai - ispirato alla folle magia di Roald Dahl
"Ammetto che non è una passeggiata:
l'audacia non è dote improvvisata.
Un po' si cade, un po' si vacilla.
Tu pensa solo, se un adulto strilla:
- questo mi fa davvero spazientire -
che solo in mano a pochi è l'avvenire.
Curiosi furbi, trasgressivi che somigliano (davvero) molto a...te!
Osserva il mondo con occhi di spia,
continua a ritrovarci la magia.
Contesta le credenze dei sistemi!
Sii irriverente! Spazza via gli schemi!
Cresci in larghezza o altezza, scaltro o fesso,
piccino o grande, tondo o retroflesso.
Indossa stracci o regale vestiario,
ma...non crescere mai, se non al contrario!"
(Roald Dahl)
Un elogio alla stravaganza, a chi rischia, sperimenta, guarda e vede oltre.
Bambini sì, ma grandi soprattutto.
Vuoto d'aria - Clémentine Haenel
"E' come un piccolo fuoco che mi cresce dentro, in mezzo alla pancia, alla bocca dello stomaco, io la chiamo la mia voglia di dissipazione. (...) C'è una voglia di fare male a quelli che amo e mi amano, non tutti. Qualcuno. Forse tutti. Non lo so più. Non sono lucida, non per forza lucida. Le mie occasioni di tragedia".
"Il mio linguaggio è fuori controllo. Non riesco a fermarmi. Non parlo più con le persone, parlo da sola, ma mai nel vuoto è un flusso senza fine. Non so da dove venga tutto questo fluire, queste affermazioni".
Uno stile telegrafico. Minimalista, organizzato in paragrafi.
Una continua altalena tra episodi del presente, ricordi del passato, visioni oniriche e fantasmagorie a occhi aperti.
Le pagine scritte da Clémentine Haenel non descrivono il periodo successivo all'abbandono così come tendono a fare certi prodotti commerciali: pigiama, junk food, visione di film sdolcinati e lacrime a profusione.
No, qui ci sono l'istinto omicida: verso gli estranei, ma anche verso persone amate, e poi bambini, animali e le madri degli uomini con cui è stata ("Gli uomini che mi incontrano farebbero meglio a stare attenti alle loro madri, nei miei sogni mi piace vederle morire").
Insieme a quello anche il costante istinto suicida.
Un abbandono totale al logorio dovuto ad alcool, droga, farmaci, malnutrizione, denutrizione, trascuratezza ("Aspetto che mi crescano i capelli. Che siano lunghi, dolorosi e pesanti, che le ciocche più rosse arrivino a infastidirmi i reni. Aspetto inzuppandoli di latte e uova crude e spremendoli dentro pellicole di plastica").
La protagonista inoltre, di cui non sappiamo il nome, sente la costante mancanza del sesso, del contatto col corpo di X., trentenne sposato e con figli, ma finisce col perdersi in un'infinita sequenza di rapporti occasionali apatici con degli estranei (definiti solo con la loro inziale, e talvolta nemmeno con quella).
Ripetute e frequenti sono le elencazioni di nomi di serial killer francesi e internazionali, e dei grotteschi e inquietanti dettagli dei loro delitti.
Un rovinoso viaggi di autodistruzione, misantropia e oblio, talvolta lucido, talvolta no.
I miei giorni alla libreria Morisaki - Satoshi Yagisawa
"Ovunque mi fossi trovato, in compagnia di chiunque, il mio posto sarebbe stato quello in cui ero certo di non stare mentendo al mio cuore".
Takako si crede arrivata ad un punto di non ritorno, dopo una storia d'amore finita male con un collega di lavoro e le immediate dimissioni dal suo impiego, finché non viene letteralmente catapultata nel luogo per lei più impensabile: la libreria dello zio Satoru, nel quartiere di Jinbocho, a Tokyo, celebre per le sue numerose librerie.
Un ritorno al passato, ad una lei stessa bambina del tutto diversa dalla se stessa del presente, ma non perduta.
All'inizio della storia, emerge che Takako non è una fervida lettrice. Per questo motivo non pare del tutto verosimile che basti lo spazio di una notte d'insonnia alla libreria dello zio per trasformarsi all'improvviso in una divoratrice di pagine, dopo la lettura di un volume scelto a caso nell'appartamento soprastante la libreria.
O forse chissà, forse non è poi così inverosimile.
Agente Baffo e il capolavoro scomparso - Helen Hancocks
Gatti, Parigi, ladri d'arte e soprattutto tanto formaggio.
L'agente Baffo, un gatto investigatore dai mimetici occhi verdi, è costretto a rimandare le sue vacanze e a raggiungere Parigi per risolvere il mistero di un pregiatissimo e famoso quadro scomparso: la Monna Ricotta.
Un delizioso albo illustrato consigliato per qualunque età, ma in particolare per avvicinare i piccoli e le piccole lettrici al mondo dell'arte, con l'aggiunta di un pizzico di mistero e di intuito felino.
Vampire - Jennifer Milton
"If I told that I am a vampire, would something change? Would your feelings for me change? (...) It doesn't matter what I am. I'm your Priscilla, that's whats matters".
Quanto il sapere o meno la verità è di ostacolo nell'amare qualcunə?
63 pagine in inglese che raccontano di una storia d'amore semplice (e non di una "semplice storia d'amore"), così come le sue premesse.
Il suo potenziale si manifesta soprattutto nel finale, dove Milton lascia volutamente delle cose non dette, alcune d'importanza non irrilevante ai fini della narrazione, come se volesse dire a chi legge che non c'è un'interpretazione giusta o sbagliata, e che qualunque finale è ben accetto.
L'immaginazione di chi legge è dunque la chiave di ogni interpretazione.
Ecco perché in questo modo riesce facile immedesimarsi in Patrick, sedicenne americano giunto in Inghilterra con la madre divorziata, poco entusiasta di essere stato costretto a lasciare la sua vita a New York.
Tutte le sue domande a proposito di Priscilla, una sua compagna di scuola di cui si chiacchiera molto, sono in fondo anche quelle di chi legge.